Ossario

Sono un teschio, perso tra tanti teschi. Sono un mucchio di ossa perso tra tante ossa. Sono passati trent’anni da quando me ne sono andato, e qualche giorno fa delle mani hanno aperto la mia cassa e raccolto ciò che restava di me. Mi hanno portato in questa grande sala e mi hanno messo ordinatamente insieme a tutte queste ossa che – come me – avevano una storia che il tempo ha portato via come un velo di polvere soffiato lontano dal vento.

Avevo una famiglia, dei figli tanto tempo fa. Mi venivano a trovare quasi tutti i giorni, mi portavano dei fiori. Quasi tutte le settimane. Di tanto in tanto. Poi sono scomparsi, e i fiori sono appassiti, il loro odore da gradevole è diventato aspro, e i petali si sono rinsecchiti proprio come me, chiuso in quella bara dietro la lastra di marmo. Ogni tanto una mano pietosa, di persone sconosciute, toglieva la polvere e le ragnatele dal mio loculo, gettava i resti di quei fiori vecchi e ne metteva di freschi. Pensare che in vita ero così orgoglioso da non riuscire ad accettare la pietà altrui: Dante la chiamerebbe legge del contrappasso. Ora di quella pietà avevo bisogno.

Non giudico i miei cari per avermi abbandonato: la vita è così difficile, assorbe così tanto tempo ed energie. Probabilmente loro mi tengono nel cuore, ma ciò che restava del mio corpo aveva ancora bisogno del loro amore. Quando hanno aperto la cassa, ho sperato per un attimo di vedere un volto conosciuto, amato: c’erano solo estranei, necrofori che hanno sbrigato una pratica come quando si archivia un vecchio documento. Mi hanno pulito da quel poco che ancora copriva le mie ossa, e mi hanno deposto con loro, con tutti questi teschi, con tutte queste tibie, con tutte queste ossa che non mi sono familiari.

Non ho più un nome, probabilmente non esisto semplicemente più, nemmeno come ricordo. Forse i miei figli saranno morti, e i loro figli erano troppo piccoli per ricordarsi del nonno. Forse sono solo una leggenda, una foto sbiadita di un vecchio album in un cassetto, sepolto e dimenticato come me.

O forse, neanche quello.

©2013 Marcello Rodi